Energia nucleare, ogm, cellule staminali: quanto più la scienza avanza rapidamente, tanto più la società e sembra fare resistenza. La ‘gente’ – ci sentiamo spesso ripetere – non è in grado di capire l’importanza della ricerca e dell’innovazione, è ‘scientificamente analfabeta’. I mezzi di informazione – è un altro argomento ricorrente – distorcono o sensazionalizzano i risultati della ricerca, alimentando paura, sfiducia e quindi ostilità verso la scienza. Eppure gli scienziati figurano regolarmente ai primi posti nelle graduatorie delle figure professionali più stimate e non mancano gli esempi in cui i cittadini appoggiano attivamente la ricerca. Si pensi al contributo dato, in termini di raccolta fondi e di impegno volontario, alla ricerca sul cancro o a quella sull’aids o più recentemente, al successo di associazioni come Telethon nel sostenere la ricerca e la sperimentazione su particolari patologie. Sulla stessa vicenda della fecondazione assistita, spesso citata come emblematica del confronto traumatico tra ragioni della scienza e preoccupazioni sociali, centinaia di migliaia di cittadini hanno firmato per abrogare una legge considerata troppo restrittiva. Dunque la società è ottusa, ma solo in certi casi? Perché emergono con sempre maggiore frequenza conflitti su questioni legate alla scienza e all’innovazione tecnologica? C’è una sorta di schizofrenica ambivalenza nel modo in cui la società si rapporta alla scienza e viceversa, per cui “la scienza si prende il merito della penicillina e dà ad altri la colpa della bomba atomica”, come ha scritto il filosofo Jeffrey Ravetz? E in definitiva, come possiamo affrontare le sfide quotidiane che scienza e tecnologia ci pongono senza generare ogni volta scontri insanabili?
Credo che per rispondere a queste domande si debba in primo luogo sgombrare il campo da un pregiudizio: non siamo di fronte a un problema interamente nuovo. Almeno a partire dal secolo scorso, infatti, la società si è trovata a dover decidere su questioni complesse come quelle legate alla scienza. Si pensi alla decisione, certamente non meno complicata e drammatica, di sganciare la prima bomba atomica sul Giappone. Ciò che è cambiato radicalmente è il contesto entro cui avvengono simili decisioni, per almeno tre motivi principali.
Il primo è il ruolo che i media hanno assunto: se una volta simili decisioni potevano essere prese nel chiuso delle stanze del potere, consultando il proprio scienziato di fiducia, oggi questo non è più possibile perché tutto avviene sotto i riflettori degli stessi media ed ogni singola decisione deve essere pubblicamente giustificata. Così, ad esempio, per anni non si è discusso pubblicamente – come si fa invece oggi per gli ogm – se fosse più o meno pericoloso introdurre in agricoltura diserbanti o anticrittogamici.
Il secondo fattore da tenere in considerazione è la trasformazione del ruolo pubblico degli esperti scientifici. La questione oggi non è tanto volersi o non volersi affidare alla scienza, la questione è ‘quale scienza’? La condizione dell’opinione pubblica è oggi quella di essere frastornata da una polifonia di esperti che offrono non di rado valutazioni molto diverse tra di loro. Le stesse organizzazione ambientaliste hanno i propri esperti scientifici di fiducia, a cui delegano la parola quando si discute di effetto serra o di ogm, così come le aziende farmaceutiche hanno i propri. Che cosa dovremmo pensare quando sentiamo scienziati litigare in pubblico sul luogo più adatto per smaltire scorie radioattive? O discutere sulla possibilità di coesistenza tra coltivazioni ogm e non-ogm? Compiere un sondaggio a maggioranza tra i ricercatori che si occupano di tale argomento? Credere all’Istituto Superiore di Sanità o al Consiglio Superiore di Sanità, che nel 1999 dettero – su richiesta del Ministero della Sanità – a breve distanza indicazioni di carattere opposto su alcuni prodotti transgenici? A titolo di esempio, e tanto per chiarire che il problema non riguarda solo l’Italia: la Commissione insediata nel 2001 dal Governo Britannico per accertare i rischi dovuti all’inalamento o all’ingerimento di sostanze radioattive rilasciate nell’ambiente, è tuttora paralizzata dalle diverse ipotesi degli esperti consultati.
Terzo elemento di novità: i cittadini – un’altra trasformazione epocale – chiedono sempre più a gran voce di partecipare, di essere coinvolti, di aver voce in capitolo anche su questioni ad elevata complessità tecnica e scientifica. Ne abbiamo avuto vari esempi, a partire dagli anni Novanta: dalle mobilitazioni di associazioni di pazienti e di omosessuali che hanno ripetutamente influenzato in modo massiccio la sperimentazione di farmaci anti-aids negli Stati Uniti, ottenendo ad esempio procedure di approvazione abbreviate o rifiutando la somministrazione di placebo, al caso Di Bella che nel nostro piccolo ci ha fatto capire come fossero divenuti permeabili i confini tra scienza, società e politica. Si può storcere il naso di fronte a questo fenomeno, ma le stesse condizioni che oggi rendono possibile la discussione pubblica sulle biotecnologie hanno dato la possibilità di sostenere e finanziare la ricerca sul cancro e sull’aids in forme e su scala mai vista in precedenza nella storia della ricerca medica. Esiste una via d’uscita da questa impasse? Possiamo affrontare le sfide quotidiane che scienza e tecnologia ci pongono senza generare ogni volta scontri insanabili? Io credo di sì, a patto però di abbandonare l’idea di una scienza che fa proposte da un lato e di una società che le respinge dall’altro.
Che ci piaccia o no, cellule staminali, ogm e scorie nucleari sono ormai a pieno titolo temi politici che ci coinvolgono tutti e come tali devono essere affrontati, tenendo in considerazione la competenza degli esperti così come le aspettative e le implicazioni sociali. Una politica, certo, che non può più essere intesa come un gendarme che rincorre affannosamente la ricerca scientifica per tamponarne gli effetti indesiderati. Al contrario, la sfida della scienza e della tecnologia può essere oggi un’opportunità per tornare a concepire la politica – che non è naturalmente solo ciò che avviene nei Parlamenti – come strumento per riflettere e discutere sul mondo in cui vogliamo vivere e quindi anche per promuovere lo sviluppo della scienza. Tutto questo si traduce nella necessità di trovare nuovi spazi e opportunità di dialogo e confronto aperto tra le ragioni della ricerca e quelle delle altre parti in causa (imprenditori, pazienti, consumatori). Un dialogo che può trovare il suo significato più autentico solo se avviene a monte delle scelte cruciali e non a decisioni già compiute – come è invece avvenuto troppo spesso in passato. Occorre, in altre parole, una società matura sia sul piano dello sviluppo scientifico e tecnologico, sia sul piano democratico. (Articolo pubblicato sul n° 49 del mensile Quark).