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Che cosa può dire la filosofia sull’umorismo? In genere, la filosofia si è occupata più del piangere che del ridere, sebbene non esista un motivo particolare per tale scelta. Stasera affronteremo questo problema: i sentimenti che proviamo davanti alle cose di finzione sono sentimenti veri o sentimenti finti? A questo proposito, esiste il cosiddetto paradosso della finzione. Supponiamo che qualcuno assista al film Anna Karenina, la cui protagonista, a un certo punto, si getta sotto a un treno, suscitando il pianto dello spettatore – benché lo spettatore sappia che (1) Anna Karenina non è mai esistita e (2) l’attrice non si butta davvero sotto un treno. Dunque il paradosso si articola così:
x piange per Anna Karenina
x sa che Anna Karenina è un’entità fittizia
dunque x non piange veramente
Da un lato, la conclusione sembra ragionevole: tutti i sentimenti che proviamo davanti a uno spettacolo di finzione sono finti. Dall’altro lato, non sembra affatto ragionevole, perché ci sembra che questi sentimenti siano proprio veri. Cercherò di mostrare perché abbiamo il diritto di piangere veramente davanti al suicidio di Anna Karenina.
L’idea che non si possa piangere (o ridere) veramente per entità o eventi fittizi, nasce dalla distinzione tra il piangere davvero, che è una faccenda seria, e il piangere finto, che non si sa bene che cosa sia. È l’atteggiamento da “madre di una volta”, che davanti al bambino in lacrime, lo minacciava: «Se non la pianti di piangere, ti farò piangere sul serio!». Questa separazione radicale tra il piangere vero, legittimo, autenticato, e il piangere finto non tiene in considerazione che, in realtà, esistono tantissimi tipi di pianto. Dunque, che cosa significa “piangere”?
1. Piangere fenomenologicamente. Si tratta di un pianto anomalo, come quando tagliamo le cipolle: esiste la parvenza del pianto, ma non il sentimento corrispondente, poiché non è uno stato d’animo a causare il pianto.
2. Piangere chimicamente. È il caso del vino. Supponiamo che un ubriaco abbia la “sbronza triste”: questo sembra essere un pianto effettivo perché, benché provocato dall’alcol, egli è davvero triste.
3. Piangere senza coscienza e senza oggetto presente. Nel caso di un sogno particolarmente triste affermiamo che, sebbene non fossimo svegli e coscienti, abbiamo pianto davvero, poiché ci ha lasciato il cuscino bagnato.
4. Piangere con coscienza e senza oggetto presente. È il caso del ricordo di un fatto o di una persona: siamo consapevoli e coscienti, ma non è presente (se non nel ricordo) l’oggetto che provoca il pianto.
5. Piangere senza oggetto vero. È il caso dell’errore. Capita che qualcuno pianga alla notizia di un evento luttuoso (la perdita di un parente, di un amico), che poi si dimostrerà falso. Ma non gli si può contestare di non piangere davvero: egli piange veramente su un dato falso.
6. Piangere senza tristezza. È il caso degli atleti olimpionici, che piangono quando vincono. Qui il pianto è accompagnato da uno stato di felicità, anziché di tristezza.
La vera differenza passa tra (1) e (2). Quando dico «Le cipolle mi fanno piangere» uso “piangere” in un modo diverso che nella frase «Le sofferenze dell’umanità mi fanno piangere». Qualcuno potrebbe accettare che (2) è “piangere veramente”, mentre tutti accetterebbero che (3), (4) e (5) sono “piangere veramente”. Di (6) si direbbe che si piange davvero, ma in un senso anomalo.
Quindi, in fondo, quando qualcuno afferma che di fronte al suicidio di Anna Karenina non si piange davvero perché è un’entità fittizia, non si considera che esistono moltissimi casi in cui, davanti a notizie false o inesistenti, oppure con sostanze psicotrope, si piange davvero e nessuno lo contesta. Dunque non c’è motivo di accanirsi contro il pianto per Anna Karenina.
Ora, che cosa significa piangere “veramente”? Consideriamo questo esempio piuttosto interessante:
x piange per Diana Spencer
In quell’occasione, milioni di persone hanno pianto per lei, benché la conoscessero solo per ciò che ne avevano appreso dai giornali. Se qualcuno obiettasse: «Non tutti potevano piangere davvero perché solo alcuni la conoscevano personalmente», gli si potrebbe replicare che non è necessario conoscere personalmente una persona per piangere davvero per quella persona. Quindi se chi piangeva per Diana Spencer piangeva veramente, allora non si capisce perché se qualcuno piange per Anna Karenina non pianga veramente. Dunque possiamo concludere:
Che la referenza sia vera non è la cosa più importante
Con “referenza” intendiamo “ciò a cui ci si riferisce”. Ora, sviluppando questo tema, notiamo che spesso di fronte a manifestazioni artistiche si piange davvero anche là dove non c’è un mondo reale in generale a cui si possa fare riferimento. Per esempio, alcuni si emozionano ascoltando la Marsigliese. Ma qual è il mondo reale a cui essa si riferisce? La musica non ha un mondo reale di riferimento, eppure provoca emozioni autentiche. L’inesistenza di una referenza reale non rende la commozione falsa.
Molto probabilmente ciò che importa è – come ha argomentato il filosofo scozzese David Hume in On Tragedy – la qualità della costruzione. Sembrano esserci alcune costruzioni di scene, di musiche, di situazioni che riescono a provocare sentimenti meglio di quanto facciano altre costruzioni o la mancanza di costruzione. Questo spiega perché, nonostante raccontino eventi tristissimi, le persone vogliano andare a teatro ad assistere alle tragedie: perché le storie sono ben narrate, i personaggi sono figure nobili che si affliggono proferendo parole giuste al momento giusto. Invece, se qualcuno a cui è successo davvero qualcosa di grave ce lo racconta male, magari sbaglia la dizione, si ripete di continuo, non trova i tempi adatti, allora difficilmente riesce a commuoverci. Quindi la costruzione sembra essere il dato decisivo.
Vengo a un ultimo punto, che invece riguarda il ridere. Finora abbiamo trattato il caso del piangere davvero, che si lega alla questione del paradosso della tragedia: per quale motivo si cerca di scansare le tragedie nella vita e poi invece le si ricerca a pagamento, a teatro, al cinema, in televisione? Le risposte sono tante: secondo Aristotele, così ci purifichiamo, vedendo ciò accade ad altri ci liberiamo dalle nostre paure. Secondo Hume, perché le tragedie sono ben costruite e capitano al momento opportuno, perché siamo andati a vederle apposta, mentre quando ci succedono non siamo preparati. C’è meno il paradosso della commedia: perché andiamo a guardare storie di persone ridicole? Perché andiamo al cinema a vedere le stesse persone che eviteremmo in spiaggia?
In molti hanno messo in dubbio che chi piange di fronte a una scena triste pianga davvero, ma nessuno ha dubitato che chi ride di una barzelletta rida davvero. Le barzellette sono un fenomeno interessante, perché sono molto simili al mito. Proprio come i miti, esse sono prive di autore: generalmente non si “firma” una barzelletta, perché se ne distruggerebbe subito l’effetto comico. E come i miti, sono prive di referente: nessuno che ascolti una barzelletta domanderebbe se i fatti narrati sono accaduti o no. La risata prodotta dalle barzellette è una risata autentica, probabilmente una risata allo stato puro, e nessuno ne ha mai dubitato. Chi metterebbe in dubbio che le risate migliori siano quelle delle barzellette? A patto che le si sappia raccontare bene. Una barzelletta raccontata male, anticipando la conclusione, o dimenticandola, o sbagliandola, non fa ridere. Ecco che – di nuovo – la costruzione è fondamentale.
Ascolta l’intervento di Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris è professore ordinario di Filosofia Teoretica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino. Presso l’Ateneo torinese ha fondato e dirige il CTAO (Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata) e il LABONT (Laboratorio di Ontologia). Ha studiato a Torino, a Parigi e Heidelberg, insegnando nelle maggiori università europee. Le sue aree di competenza sono l’ermeneutica, l’estetica e l’ontologia. Ha scritto una quarantina di libri tradotti in varie lingue, tra i quali Filosofia per dame (Guanda, 2011) e Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Laterza, 2009).