La brusca accelerazione di cui si sono rese protagoniste la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica nell’ultimo ventennio, ed il coincidere storicamente con un periodo di grandi cambiamenti politici e sociali (come la fine dell’equilibrio bipolare e l’imporsi di un sistema economico sempre più globalizzato), hanno contribuito a rendere più complessa e sempre meno delineata la relazione tra tre dei più importanti attori delle nostre società (il pubblico, la “scienza” e la politica). Il rapporto tra i cittadini, le istituzioni scientifiche e le istituzioni della democrazia tradizionale è sempre più oggetto di discussione e sembra caratterizzato sempre più spesso da elementi di incertezza e ineguaglianza(1).
Incertezza, in primo luogo, che caratterizza le istituzioni politiche alle prese con la necessità di regolamentare un sapere scientifico i cui effetti sulle abitudini e spesso sui valori di una comunità si dimostrano sempre più spesso potenzialmente dirompenti (le biotecnologie ne sono l’esempio più eclatante, dagli OGM alle sperimentazioni sugli embrioni). Ma anche incertezza della conoscenza scientifica, che si tramuta all’esterno nell’incapacità di dare al pubblico un’immagine chiara dello sviluppo della ricerca, delle sue conseguenze e delle sue possibilità. La mancanza di accordo all’interno della comunità scientifica (le cosiddette “guerre della scienza”) trasmette all’opinione pubblica un’immagine frammentaria della comunità scientifica che contrasta fortemente con l’idea tradizionale della Scienza come portatrice di Verità, e che a sua volta genera un senso di confusione e di incertezza di fronte alle nuove sfide della ricerca tecno-scientifica.
In mancanza di risposte adeguate, all’incertezza fa eco la sensazione diffusa che siano presenti, nelle nostre società, forti fattori di diseguaglianza. La presa di decisione sembra sempre più privilegio di un gruppo ristretto di cui fanno parte politici (eletti secondo i meccanismi della democrazia rappresentativa) ed esperti (portatori di conoscenze che gli altri i “non esperti”- non hanno), laddove gli effetti di queste decisioni ricadono, spesso violentemente, sulla comunità intera.
E’ in questo panorama che si possono interpretare alcuni fattori quali la richiesta di maggior partecipazione al dibattito ed alla presa di decisione da parte di numerose associazioni di cittadini, la “revisione” in ambito accademico dei principi del Public Understanding of Science (2) e la discussione di temi quali “democrazia tecnologica”e “forum ibridi”(3), ed infine il tentativo da parte delle istituzioni pubbliche di implementare nuove procedure dirette verso una maggiore partecipazione del pubblico al dibattito sulle tecnoscienze.
In questo campo gli esempi oggi in Europa sono molti, dai citizens’ foresight e citizens’forum anglosassoni, alle Plannungszellen sviluppate in Germania, al modello delle Consensus conferences danesi. Quest’ultima procedura, in parte per l’alto grado di partecipazione del pubblico (il panel di cittadini che partecipa ai lavori ne decide ordine del giorno, tematiche principali e conduce il dibattito conclusivo) e per la struttura del modello che ben si presta ad essere adattato a contesti diversi, stanno riscuotendo un grosso successo al punto da essere state utilizzate in numerosi paesi europei ed in ambito extraeuropeo (4).
All’interno di questi spazi di discussione, di questi “forum ibridi”, come vengono spesso chiamati (5), i partecipanti ricoprono un duplice ruolo: da una parte, in quanto “profani”, sono portatori di una conoscenza che, benché non esperta, è frutto di un rapporto quotidiano e costante con tecnologie sempre più invasive (telecomunicazioni, OGM, ecc.). Dall’altra, in quanto cittadini, essi chiedono di poter ricoprire un ruolo sempre più attivo, di poter allargare il collettivo decisionale tradizionalmente costituito dai rappresentanti eletti e di affiancare quindi ai meccanismi della democrazia rappresentativa istanze di democrazia partecipativa o deliberativa.
In questo duplice percorso, di “esplorazione dei mondi possibili” e di “allargamento del collettivo”, si può intravedere negli esperimenti di participatory Technology Assessment (pTA), pur nell’incertezza che deriva dagli scarsi tentativi di valutazione fino ad ora compiuti, una sfida rivolta più alla politica e al ruolo dei decisori politici nelle nostre democrazie, piuttosto che alla scienza ed al ruolo degli scienziati.
Le inquietudini e le incertezze dei cittadini riguardano quindi non tanto le nuove frontiere della ricerca in sé (nelle quali, al contrario, si ripongono speranze ancora per molti versi illusorie), bensì l’uso (e abuso) che ne potrebbe risultare. Alla politica si chiedono dunque una presa di posizione ma anche un’elasticità sempre più difficoltosa per i meccanismi tradizionali basati su expertise scientifica e democrazia rappresentativa.
In questo momento, le procedure di pTA sono uno degli strumenti possibili per favorire il dibattito ed allargare la partecipazione del pubblico. Si potrà valutare solo in futuro fino a che punto e a quale degli attori coinvolti (se al pubblico, ai decisori politici o alle istituzioni scientifiche tradizionali) questi esperimenti porteranno benefici maggiori.
1) S.Joss e S.Bellucci. Ed. Participatory Technology Assessment.European perspectives, London, Centre for the Study of Democracy, University of Westminster, 2002
2) del cosiddetto “modello del deficit” in primo luogo v. B.Wynne, “Misunderstood misunderstanding:social indentities and public uptake of science”, Public Understanding of Science, vol.1, 1992
3) si vedano i lavori di M.Callon, in particolare Callon, Lascoumes, Barthe, Agir dans un monde incertain. Essai sur la démocratie technique, Paris, SEUIL, 2001
4) In Danimarca, dal 1987 ne sono state organizzate più di venti. Tra gli ultimi paesi ad averne adottato il modello vi sono il Giappone, l’Australia,l’Argentina, l’ Italia. Per un elenco completo, v. www.loka.org/worldpanels.htm Per la prima conferenza italiana, www.fondazionebassetti.com
5) v.Callon, Lascoumes, Barthe, op.cit.