«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» scriveva Bertolt Brecht nel suo Vita di Galileo. E sventurata quella ricerca che ha bisogno di geni, si potrebbe oggi parafrasare di fronte a un paradosso sempre più ricorrente nelle cronache su ricerca e università.
Mi riferisco a quelle notizie che raccontano di giovani studiosi, scarsamente valorizzati in Italia, prontamente accolti da istituzioni di ricerca straniere. Come si spiega questo paradosso? Come è possibile che la tanto bistrattata università italiana produca figure così diffusamente appetibili nel resto d’Europa e del mondo? Siamo dunque un Paese di geni incompresi e di misconosciuti eroi della ricerca?
Eppure in questo paradosso si cela una lezione importante. Che ci dice qualcosa di più, sulla ricerca contemporanea, rispetto a ciò che già sappiamo o dovremmo sapere: la blanda (eufemismo) meritocrazia del reclutamento nelle nostre istituzioni e la qualità ancora relativamente solida (almeno in alcune istituzioni e settori) della nostra formazione universitaria. È una lezione che ci viene, tra l’altro, dall’opera del fisico e storico della scienza Thomas Kuhn. Analizzando le trasformazioni del sapere scientifico, Kuhn mise in luce che gran parte dell’attività di ricerca è “scienza normale”, ovvero tutt’altro che rivoluzionaria: lavoro quotidiano e certosino di affinamento e limatura delle conoscenze esistenti. Questa ricerca – per fortuna – non ha bisogno di geni. E quando arrivano davvero gli ingegni straordinari come Darwin o Einstein, quelli capaci di uscire dal paradigma esistente per balzare al successivo, è tutto quell’oscuro e prezioso lavoro collettivo a fare un salto di qualità.
D’altronde, basta dare un’occhiata ai numeri della ricerca contemporanea per farsi un’idea. Secondo una stima della National Science Foundation americana, il numero di ricercatori nel mondo è cresciuto, tra il 1995 e il 2007, da circa 4 milioni a 5,7 milioni. Limitandosi solo a un sottoinsieme di riviste internazionali peer reviewed, il numero degli articoli pubblicati è passato, negli ultimi due decenni, da circa 460.000 a circa 760.000.
Si tratta di dimensioni che non permettono più di confidare, come già ammoniva il Galileo di Brecht, nella sola presenza di talenti eccezionali a livello individuale o di singoli entusiasti come quelli che animarono la nascita della scienza moderna. La ricerca è oggi un’impresa globale, imponente e diffusa che richiede, oltre alle fortunate e brillanti eccezioni, un vasto “ceto medio” di solidi e affidabili professionisti.
Perché, dunque, alcune istituzioni di ricerca e le università straniere sono leste ad accaparrarsi i nostri aspiranti ricercatori? Fondamentalmente perché dispongono di organizzazioni di ricerca efficienti e ben oliate, capaci di valorizzare, appunto, quel “ceto medio” di cui la scienza contemporanea ha bisogno.
Dei geni, alla fine, non c’è troppo da preoccuparsi. Come mostra anche la storia dei nostri più illustri scienziati, essi prima o poi emergeranno comunque, qui o altrove.
Ma se c’è un campanello d’allarme che queste notizie devono far suonare, è che serve a ben poco indulgere nella retorica della ‘fuga dei cervelli’ se poi ogni discussione, ogni commento, è centrato sul caso singolo o sulla testimonianza, per quanto autorevole, dei soliti casi eccezionali – premi Nobel o scienziati visibili, peraltro spesso ormai non più in attività da tempo e quindi poco adatti a comprendere le dinamiche in rapida trasformazione del mondo della ricerca.
Che ci piaccia o no, è del “ceto medio” della scienza che dobbiamo occuparci, e di quanto le nostre organizzazioni e istituzioni siano attrezzate (o debbano rinnovarsi) per metterlo nelle condizioni di lavorare. Perché se dobbiamo affidarci ai soli ‘eroi’ della ricerca, allora sì aveva ragione il Galileo di Brecht: non siamo messi bene.
Massimiano Bucchi è professore di Scienza, Tecnologia e Società, Università di Trento. Il suo libro più recente è “Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono” (Il Mulino).