Il dibattito che si è acceso recentemente sulle politiche di ricerca e i finanziamenti alla ricerca in Italia – e in parte anche in Europa – si è limitato a mettere in evidenza l’aspetto puramente quantitativo della questione.
In sostanza, sia da parte degli scienziati che da parte dei politici, si sostiene che l’Italia spende troppo poco per la ricerca rispetto agli altri paesi europei e in generale industrializzati: occorre aumentare gli investimenti statali per sostenere lo sviluppo, aumentare la competitività e tamponare la “fuga di cervelli”.
Vorrei provare brevemente a mostrare che il problema dei finanziamenti alla ricerca non è così semplice e non è l’unico aspetto rilevante.
È vero che l’Italia spende poco in ricerca? In linea generale sì: l’1% del PIL investito pone l’Italia non solo in coda a paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna (che spendono tra il 2 e il 2,5% del PIL) ma anche alla media europea (1.93%) e ad Austria, Belgio, Norvegia, Irlanda [dati Ocse ed Eurostat, 2002]…
Tuttavia, se andiamo a vedere la quota di finanziamenti statali, scopriamo che l’Italia (0,69%) è di poco inferiore alla media europea (0,77%) superata solo da Francia, Germania e paesi scandinavi. In rapporto al PIL, lo stato in Italia spende quanto in Gran Bretagna e in Norvegia e un po’ di più che in Austria e in Belgio. Il discorso non cambia se si va ad analizzare l’incidenza di questa quota all’interno del bilancio statale (1,36% nel 1999), non così distante da quella di altri paesi europei (Danimarca, Belgio, Austria e Svezia sono sugli stessi livelli; più elevata la percentuale in Olanda e Francia, dove sfiora il 5%).
Dove sta allora il trucco? Un’analisi più approfondita delle statistiche lo rivela immediatamente: nella porzione di ricerca finanziata o condotta dal settore privato. Solo Portogallo e Grecia seguono l’Italia in quest’ambito; la quota italiana di finanziamenti provenienti dal settore privato rispetto al totale (43%) è inferiore a quella della Spagna, dell’Irlanda e del Belgio, per non parlare della Germania e dei Paesi Scandinavi (dove la quota di finanziamenti di origine privata raggiunge il 70%). La quota di fatturato delle industrie dedicato alla ricerca è invece nettamente più basso, ancorché in lieve crescita (0,58% nel 1999, un terzo del Belgio e un quarto della Danimarca).
Il vero tratto che distingue in negativo l’Italia non è quindi tanto l’impegno statale, quanto la scarsa presenza della ricerca all’interno delle imprese, la capacità dello settore economico e tecnologico di creare risorse e richieste per il sistema ricerca, il rapporto tra imprese e istituzioni di ricerca pubblica. Un indicatore recentemente introdotto dalla Commissione Europea, relativo al numero di imprese operanti in settori ad alta innovazione che cooperano a scopi di ricerca con altre imprese, università o centri di ricerca pubblici, vede l’Italia all’ultimo posto in Europa, con solo il 10% delle imprese impegnate in accordi di questo tipo; negli altri paesi si va dal 18% della Grecia al 70% della Finlandia.
In sostanza, in Italia le imprese fanno e finanziano pochissimo la ricerca. Questo dato appare tanto più critico in quanto gli investimenti statali si sono livellati in gran parte dei paesi europei, mentre laddove vi sono stati incrementi questi sono stati guidati principalmente dalla componente privata. Emblematico a questo proposito il caso della Finlandia, che è arrivata in pochi anni a superare il 3% di investimenti nella ricerca rispetto al PIL con il 71,6% delle attività di ricerca svolte in ambito privato.
È ovvio che in questo si deve tener conto della specificità del quadro imprenditoriale del nostro Paese, composto principalmente di piccole e medie-imprese. Tuttavia i rapporti internazionali sulla ricerca in Italia [Ocse, 2002] non mancano di mettere in evidenza come limiti principali, oltre alla frammentarietà e alla disomogeneità qualitativa della ricerca in ambito pubblico, lo scarso coordinamento tra politiche di ricerca e politiche industriali e il modesto impatto dei tentativi fatti sinora per incentivare la ricerca privata e la collaborazione in ambito pubblico. Gli incentivi fiscali alle attività di ricerca, all’assunzione di personale in possesso di laurea o dottorato o al distacco di personale universitario (legge 140/1997 e legge 449/1997), si sono spesso scontrati con il timore di maggiori controlli fiscali e con la rigidità delle istituzioni universitarie. Le stesse agenzie di intermediazione, come i parchi scientifico-tecnologici, non sono per ora riuscite a sviluppare le proprie attività in sintonia con i bisogni delle imprese: relazioni deboli con il mercato, scarsa fiducia da parte delle aziende, competizione con altri attori locali impegnati nel trasferimento tecnologico, scarsa attenzione delle istituzioni a un aspetto cruciale quale quello della tutela della proprietà intellettuale sono solo alcuni dei fattori alla base di questa difficoltà.
Come si valuta la ricerca scientifica?
Se dunque il problema del quanto è decisamente più complicato di quello che può sembrare, non sarebbe tuttavia corretto trascurare che a livello internazionale sono già da tempo aperti interessanti dibattiti – pochissimo recepiti in Italia – sul come si spendono i finanziamenti alla ricerca. Come fanno gli stati, le imprese o gli stessi istituti di ricerca a stabilire se il denaro investito in un certo settore di ricerca o assegnato a un certo gruppo di ricercatori è stato speso bene o male? Sulla base degli indicatori utilizzati ad esempio dalla Commissione Europea (numero pubblicazioni scientifiche pro capite, numero di brevetti, numero di pubblicazioni altamente citate pro capite, numero di dottorati tra la popolazione nella fascia di età 25-34), appare chiaro che il problema dell’Italia non è solo di quantità, ma di qualità della spesa. Il livello di performance del nostro Paese, infatti, risulta tra gli ultimi dell’Unione Europea, davanti solo a Portogallo, Spagna e Grecia (cfr. il rapporto) e l’analisi specifica dell’impatto internazionale della ricerca italiana mostra risultati molto simili (rapporto CRUI su dati ISI, 2002). Credo che un serio e approfondito dibattito su politiche e finanziamenti alla ricerca non possa prescindere da questi aspetti.
Vi sono, però, alcuni elementi di scenario da tenere presenti. Il primo è che certi indicatori tradizionalmente utilizzati per misurare la produttività scientifica – come le pubblicazioni – sono al centro di un ampio dibattito all’interno delle comunità scientifiche. Iniziative come la Public Library of Science mettono in discussione la stessa natura delle pubblicazioni scientifiche e in particolare il ruolo delle riviste, divenute per vari motivi (a cominciare dal costo, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni) un fattore critico.
Il secondo elemento è legato alla crescente importanza che su questi temi ha assunto la dimensione pubblica. Se in passato i criteri di allocazione delle risorse erano negoziati sostanzialmente all’interno della comunità scientifica – per cui la negoziazione (perlopiù in forma riservata) con il potere politico riguardava solo il quanto, lasciando poi ai ricercatori determinare il come – oggi i criteri adottati devono essere riconosciuti come legittimi anche in un contesto sociale più vasto a cui sempre più spesso i policy makers dichiarano di dover fare riferimento.
tratto da Golem