Le due culture sono ben più di due, si potrebbe osservare con pessimismo perfino maggiore di quello di C.P. Snow. Non sono solo le lettere e le scienze a dialogare in misura insufficiente; ma le stesse arti e le tecniche, tra di loro e con le scienze, stentano a trovare un rapporto che vada oltre il semplice sfruttamento dell’innovazione tecnologica. Eppure è anche e soprattutto nell’architettura, ad esempio, che si consuma su base quotidiana il nostro rapporto con lo spazio, la luce e con gli stessi significati culturali della tecnologia, il non sempre facile incontro tra saperi e necessità pratiche.
MB Scienza e architettura sono davvero così distanti tra di loro?
FA Ci si può chiedere provocatoriamente se ci sia davvero mai stata una separazione tra le due. Lo stesso termine Architettura, se noi lo intendiamo in senso ampio come ‘composizione, struttura, modo con cui sono congegnate le parti di un organismo o di un’opera’, si può prestare a descrivere oggetti di studio delle scienze. In questo senso, ad esempio, si può parlare di architettura di un organismo vivente.
MB In effetti Vesalio intitola il suo atlante anatomico, considerato uno dei primi prodotti della scienza moderna, De Humani Corporis Fabrica…
FA Questo vale anche per il Progetto, come sistema di meccanismi che attingono a fonti diverse per realizzare un prodotto – un oggetto tridimensionale ma anche un prodotto della mente, si può progettare un viaggio, un’avventura…in questo senso c’è secondo me una fortissima interferenza con il sistema di produzione della conoscenza.
MB Un punto in comune potrebbe essere l’impulso a lasciare un impronta sul mondo, a conoscere ma non semplicemente per contemplare. Penso ad esempio alla biologia contemporanea.
FA Per realizzarsi, un progetto è tale in quanto cerca di svincolarsi dalla mera produzione; un progetto diventa innovazione nel momento in cui sfida la riproduzione del passato. Anche la scienza per sua natura rifiuta il già saputo. Così, il progetto architettonico viaggia su due binari paralleli: non può non tener conto di regole e leggi, ma al tempo stesso vuole disconoscerle e frantumarle. E’ come il passaggio di energia tra cellule del sistema nervoso: in questo varco tra regola e disconoscimento della regola c’è la possibilità che un progetto diventi veramente tale. E’ chiaro che la tettonica deve tener conto della gravità, il tentativo però è di sottrarsi alla gravità: le strutture più complesse oggi sono quelle che apparentemente non soddisfano il bisogno statico. Così il progetto in architettura si colloca in quella fascia intermedia, di tensione, che è tipica di ogni tipo di innovazione. L’innovazione in ogni campo, nell’architettura come nella scienza, tende a rigettare quello che già c’era, pur avvalendosene.
MB Mi viene in mente la frase di Whitehead “una scienza che non esita a dimenticare i suoi fondatori è perduta”. O la metafora del nano sulle spalle dei giganti che piaceva tanto a Newton.
FA L’altra grande dicotomia al centro dell’architettura è quello tra bisogno e desiderio. Se noi guardiamo l’ape, l’ape è in grado di ripetere all’infinito una stessa costruzione che soddisfa i suoi bisogni. Nell’uomo a questo si aggiunge un elemento quasi schizofrenico, l’uomo non è capace di iterare un prodotto abitativo per quanto confortevole, cerca sempre di andare oltre. Il suo bisogno di protezione diventa il bisogno, e quindi il desiderio, di abitare uno spazio.“Così poeticamente abita l’uomo” dice Hölderlin. L’asticella si alza sempre di più e in quanto desiderio diventa ancora meno governabile da leggi.
MB Che cosa può insegnare oggi la scienza all’architettura contemporanea, e viceversa?
FA La grande sfida per l’architettura oggi è quella di essere sostenibile, senza rinunciare a rappresentare. Compatibilità con la tutela dell’ambiente, convivenza con il paesaggio: l’architettura oggi non può non tener conto della scienza, sia che presti il fianco alla sostenibilità, sia che gli si opponga.
MB E’ il dilemma che spesso si prospetta anche alla scienza contemporanea: innovare, progredire, tenendo conto però delle implicazioni etiche e sociali delle proprie innovazioni. Ad esempio, il giorno che la scienza troverà il modo di farci fare a meno del sonno, come alcune ricerche ormai prospettano, l’architettura ne sarà trasformata? In fondo uno dei bisogni che dà forma alle nostre abitazioni è quello di dormire..
FA E’ possibile, ma in realtà le nostre città sono già impreparate di fronte a certe trasformazioni dei nostri modi di vita. Se pensi che dal dopoguerra ad oggi si vive fuori da casa in media quattro ore al giorno in più, cioè la giornata in pochi decenni si è allungata di quattro ore a scapito della notte, è evidente che i nostri spazi urbani sono inadeguati a questi nuovi stili di vita, guarda il problema delle stragi del sabato sera.
MB Inseguire il desiderio, la gratificazione estetica più che il bisogno, non appiattisce l’architettura sull’arte, più avvicinarla alla scienza? Vedi un rischio di autoreferenzialità?
FA Certamente ci si può chiedere se l’architettura stia tuttora aiutando l’uomo a essere felice. Ma nel 2050 ci saranno per la prima volta oltre tre miliardi di esseri umani che vivranno nelle grandi baraccopoli metropolitane. L’architettura sarà inevitabilmente interpellata dalle esigenze abitative di questi nuovi soggetti, e forse tornerà ad occuparsi di bisogni, più che di desideri. La sfida sarà sempre più quella di lavorare sugli spazi interstiziali, più che sulle certezze. Anche in questo senso vedo punti di contatto con la scienza.
Questa conversazione è stata pubblicata l’11 aprile 2007, sull’inserto scientifico de La Stampa Tutto Scienze e Tecnologia.
Flavio Albanese è direttore della rivista Domus.
Massimiano Bucchi è professore di Sociologia della Scienza all’Università di Trento