I continui cambiamenti in atto nel mondo scientifico-tecnologico, esaltati nel loro impatto socio-territoriale dal processo imperante di globalizzazione, hanno sempre più posto in discussione la sostenibilità incondizionata delle odierne procedure di decisione proprie della tradizionale forma di democrazia rappresentativa che contraddistingue gli Stati di civiltà democratica. In tale contesto la politica appare in affanno rispetto all’esigenza di rispondere “alle contrapposte domande di efficienza, da una parte, e di principi dall’altra” (1). Essa fatica a rispondere alle controverse conseguenze delle innovazioni della scienza che interessano le odierne società globalizzate.
Sempre più ardua è la distinzione tra scienza pura e scienza applicata, nonché quella tra sapere esperto e non esperto (2), mentre il nucleo del sapere scientifico stesso diviene progressivamente controverso a causa del crescente grado di complessità delle questioni affrontate. Ciò che appare di cruciale importanza nell’analisi politico-sociale della dinamica del processo di innovazione scientifica e tecnologica, è rappresentato in particolare dalle incerte conseguenze degli sviluppi di tali innovazioni sulla quotidianità dei cittadini: si tratta del cosiddetto technology deficit ovvero un processo in base al quale l’applicazione tecnologica presenta sia un deficit di performance in termini di benefici inferiori a rischi ed imprevisti, sia un deficit democratico riguardo al loro governo (3).
La dimensione dell’incertezza, inoltre, non è soltanto quella legata alle possibili conseguenze tecnico-materiali impreviste derivanti dall’uso di una tecnologia, ma anche e contemporaneamente si sviluppa una dimensione dell’incertezza legata all’interazione tra valori e conoscenza (4). Nel processo di valutazione del rischio intervengono cioè anche considerazioni di ordine morale che in assenza di conoscenze positive sull’uso di una data tecnologia possono limitarne l’implementazione nel timore appunto di rischi giudicati non accettabili. A differenza che in passato, oggi appare più difficile “bollare come irrazionali le paure della gente comune sui rischi della tecnologia”, il che spinge inevitabilmente ad un ripensamento del rapporto tra scienza e società (5).
In aggiunta e in correlazione alla crescente incertezza prodottasi intorno alle conseguenze degli sviluppi tecnologici, vi sono altresì almeno altri due snodi critici importanti. Il primo è dato dalla diffusione dei poteri di veto che le comunità locali sono in grado di esercitare contro progetti di interesse generale nella misura in cui li percepiscono come una minaccia ai propri interessi e alla propria identità. Un secondo snodo critico è poi legato alla presenza sempre più frequente di politiche pubbliche che risultano di difficile implementazione senza un coinvolgimento attivo ed effettivo dei destinatari delle stesse. Appare cioè sempre più difficile distinguere, rispetto al tradizionale processo di policy-making, tra policy-makers e policy-takers (6).
In un contesto dunque di innovazioni dalle conseguenze sociali sempre più incerte e pervasive, il coinvolgimento attivo del pubblico appare a numerosi osservatori sempre più improcrastinabile al fine di rendere il più possibile accetti e compartecipati possibili esiti sociali imprevisti ed indesiderati del processo di “permanente rivoluzione” tecnico-scientifica in atto. Il coinvolgimento del pubblico ha per scopo non tanto e non solo la necessità di far fronte a possibili opposizioni future, quanto di garantire l’effettiva applicazione delle politiche pubbliche in campo scientifico e tecnologico – siano esse azioni per lo sviluppo sostenibile o quant’altro.
Una risposta alle criticità emerse per il processo pubblico di decisione a causa delle nuove sfide sociali provenienti dalla scienza e dalla tecnica, è dato dall’insieme delle iniziative legate alla cosiddetta “democrazia deliberativa”, ovvero alla discussione pubblica come base di una democrazia funzionante. I processi di tipo deliberativo si presentano in tale quadro come un completamento della democrazia rappresentativa, poiché i meccanismi tradizionali di rappresentanza e di decisione non garantiscono che nelle assemblee elettive siano rappresentati tutti i punti di vista dei potenziali interessati col loro bagaglio di possibili preoccupazioni. Le esperienze deliberative sono tali nel senso che si basano sul ricorso, nell’ambito del processo di decisione, alla logica dell’argomentazione razionale e imparziale piuttosto che alla negoziazione o all’aggregazione delle preferenze, e sono democratiche nel senso che vi partecipano in teoria quanti sono affetti dalle conseguenze di una certa decisione. La prospettiva di un ricorso sempre più diffuso e convinto alle procedure della democrazia partecipativa in seno ai tradizionali processi di policy-making, in modo da cercare di garantire le condizioni per un aperto ed efficace confronto pubblico capace di produrre decisioni condivise e compartecipate, rappresenta una risposta stimolante e significativa alla crisi del rapporto tra scienza, politica e società al quale si è inizialmente fatto riferimento.
Delle diverse possibili forme di partecipazione della società civile al processo di policy-making, quella afferente all’insieme dei metodi raggruppati sotto la comune etichetta deliberativa, rappresenta la forma più importante, benché i metodi deliberativi presentino di fatto diversi gradi di intervento da parte del pubblico. Le procedure partecipative di tipo deliberativo mirano in molti casi ad una forte interazione tra pubblico, società civile e policy-makers, che va oltre il mero bombardamento informativo unilaterale e/o univoco del pubblico, e comporta invece per la società civile la possibilità di maturare una posizione consapevole su un tema dato, con la percezione che essa potrà essere presa in considerazione dagli organi decisionali (7). In tale contesto la misura della significatività della partecipazione pubblica è correlata ad un apprendimento reciproco e ad effettive possibilità di scambio in seno all’arena deliberativa tra rappresentanti politici, scienziati e società civile stessa. L’importanza del contributo offerto dai cittadini attraverso la partecipazione deliberativa emerge, a titolo esemplificativo, anche dal tipo di questioni che essi pongono con riferimento ai diversi temi oggetto del processo deliberativo.
Per esempio, uno studio condotto sulle questioni avanzate dai cittadini deliberanti sul tema del cibo contenente OGM in tre paesi (Canada, Stati uniti e Danimarca), ha infatti evidenziato come ciò che preoccupa il pubblico non è soltanto legato ai rischi/benefici individuali o della società nel suo insieme – su cui pure, peraltro, il giudizio appare tutt’altro che univoco e al contrario alquanto articolato -, solleva problematiche molto più significative e complesse. Tra esse, ad esempio, la scelta di determinati percorsi tecnologici come migliori alternative possibili fra varie opzioni; gli effetti di specifiche tecnologie sull’ambiente, sugli animali, sui paesi del terzo mondo. Vi è poi la questione del chi controllerà una data tecnologia e se ciò comporterà limitazioni al potere dello Stato; la rivendicazione del diritto all’informazione e alla scelta, e così via.
Come si accennava in precedenza, la casistica dei metodi deliberativi è alquanto ricca e va dalle giurie popolari (Citizens Juries), alle più note Consensus Conferences danesi, ai sondaggi deliberativi, agli Scenario Workshops, alle Cellule di pianificazione tipiche della Germania, fino all’esperienza tutta brasiliana del Bilancio partecipativo. Tali esperienze appartengono a contesti socio-culturali molto diversi tra loro e sono contraddistinte da una diversa portata e da un diverso livello e tema di applicazione. Pur differenziandosi tra loro anche in modo importante, tali esperienze possiedono però tutte, in ultima istanza, la natura di “arene deliberative”, ovvero di luoghi nei quali i diretti interessati “prendono parte in modo strutturato ad un processo collettivo di decisione fondato sull’uso di argomenti” (8). E’ bene sottolineare sin da ora che nelle esperienze considerate il processo decisionale non si qualifica come azione politica tipica della democrazia diretta – come ad esempio i referendum – ma, piuttosto, come meccanismo consultivo e propositivo.
I governi nazionali, le istituzioni locali, i portatori di interesse e i cittadini saranno chiamati se lo riterranno opportuno, nei prossimi anni, a misurarsi con queste forme partecipative per attivare efficaci processi di policy in ambito scientifico e tecnologico.
Note al testo
(1) Bosetti, G., “Valori e pragmatismo. Disgusto su due fronti”, p. 4, Editoriale, in Reset, Luglio-Agosto, n. 78, 2003.
(2) Einsiedel E., “Citizen voices: public participation on biotechnology”, in Notizie di Politeia, 17, n. 63, pp. 94-104, 2001; Andersen I.E. e Jaeger B., “Scenario workshops and consensus conferences: toward more democratic decision-making”, in Science and Public Policy, 26, n. 5, p. 338, 2003.
(3) Einsiedel, Ibidem, p. 94.
(4) Einsiedel, Ibidem., p. 100.
(5) Bobbio, L., “Le arene deliberative”, in Rivista italiana di politiche pubbliche, 3, p. 16, 2002.
(6) Bobbio, L., Ibidem.
(7) AA.VV. (2000), European Participatory Technology Assessment – Participatory Methods in Technology Assessment and Technology Decision-Making, p. 10 October, rapporto pubblicato nel sito: http://www.tekno.dk/europta
(8) Bobbio, Ibidem, p. 7.